BERGAMO: CONVEGNO ETICA E DIRITTO NELL’EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA EUROPEA – MARTEDI 21 MARZO 2006 PRESSO L’AUDITORIUM DEL COLLEGIO S. ALESSANDRO
Nel ringraziare dell’invito desidero innanzitutto dire che oggi è necessaria un’analisi schietta e al di fuori delle convenzioni, dei soliti schemi, che ci porta ad affrontare con eccessivo unanimismo ed eccessivo entusiasmo il problema dell’adesione all’Unione Europea. Dobbiamo cercare di capire innanzitutto le cause che hanno determinato la bocciatura del trattato da parte di alcuni paesi (Francia e Olanda).
Un fatto di per se non negativo perché ci consentirà di ragionare meglio sulle lacune che sono contenute nel testo attuale del trattato.
Parlare di etica e diritti nell’educazione alla cittadinanza europea significa parlare della crisi dell’Europa non dal punto di vista politico, economico o sociale, bensì da quello morale e spirituale.
E l’esame di questa crisi, dal cui superamento può derivare l’individuazione di una tavola di valori che consentano di soddisfare la domanda di come educare i giovani alla cittadinanza europea, comporta l’analisi del Trattato costituzionale europeo, e in particolare nel suo Preambolo.
In qualsiasi Carta costituzionale è proprio il Preambolo ad avere un significato pregnante, perchè i singoli articoli contengono, oltre alle norme sulle istituzioni, i princìpi e i valori che fanno dei cittadini un singolo popolo. Il preambolo individua ciò che al popolo dà l’immagine di sé, l’autocoscienza, la missione.
Ovvero, la cultura e la civiltà che distinguono un popolo. Anche la Costituzione europea certo non a caso comincia dicendo che ‘l’Europa intende avanzare sulla via della civiltà.
Ma ciò che rende anomala la Costituzione europea è il fatto che i preamboli sono due, e non interamente sovrapponibili.
Il primo è quello generale, l’altro è quello premesso alla seconda parte della Costituzione, quella che potremmo chiamare il Bill of rights europeo.
Entrambi i preamboli sono poi lacunosi e al limite dell’ambiguità quando si tratta di definire quali siano le radici culturali e civili dell’Europa.
Vediamo perché. Il preambolo alla parte seconda dice che “i popoli d’Europa [sono] consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale”.
Quale patrimonio? Come ha ricordato il presidente del Senato Marcello Pera, è evidente che questa espressione è di una povertà sconcertante e anche banalmente tautologica. Dire che noi europei siamo figli della nostra eredità spirituale e morale è tanto illuminante quanto dire che ciascuno di noi è figlio dei propri genitori.
Qualcosa in più è possibile riscontrare nel preambolo generale dove si parla invece di “eredità culturali, religiose e umanistiche”.
Ma neanche questa formula è particolarmente chiara.
Soprattutto perché non si chiarisce a quali tradizioni religiose, a quale patrimonio spirituale si faccia riferimento.
– Non stupisce allora se papa Ratzinger, quando era ancora cardinale, annotò:
“l’Europa, proprio nell’ora del suo massimo successo, sembra svuotata dall’interno, come paralizzata da una crisi circolatoria, che mette a rischio la sua vita affidandola a trapianti che ne cancellano l’identità”.
E ancora: “Si diffonde l’impressione che il sistema di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi già uscito di scena”.
Il Papa ha ragione. Non solo l’Europa sembra non credere più nella validità del suo sistema di valori e nelle sue tradizioni, dunque in se stessa.
L’Europa si indebolisce su questo fronte proprio mentre allarga le sue frontiere e cresce dal punto di vista politico e economico, espande il suo benessere.
Questa contraddizione ha molte cause. E’ emblematico, per cercare di capire, vedere come l’Europa sta affrontando il problema della immigrazione e come ha reagito al terrorismo islamico.
Sull’immigrazione, l’Europa ha dato due risposte.
La prima è quella del multiculturalismo, una “società arcobaleno”, in cui ciascuna comunità convive con ciascun’altra, senza interferenze come in compartimenti stagni.
Concordo a questo proposito con quanto sostenuto dal presidente del Senato, quando ha detto che questa dottrina è sbagliata perché non considera che le comunità “non sono entità statiche e immutabili: esse cambiano, alcune si rafforzano, altre si indeboliscono, altre ancora scompaiono”.
Il multiculturalismo è sbagliato e persino pericoloso anche riguardo alle politiche di integrazione. La politica multiculturalista produce, nel migliore dei casi, comunità che si ignorano, e, nel peggiore, comunità che si osteggiano.
Il risultato inintenzionale del multiculturalismo europeo è quello dei ghetti nelle nostre capitali e delle tensioni etniche fra le comunità. Dopo gli assassinii di Pim Fortuyn e Theo van Gogh, e dopo gli attentati di Londra, anche l’Olanda e l’Inghilterra stanno facendo marcia indietro rispetto al modello multiculturalista, e dopo gli incendi scoppiati in alcuni quartieri degradati di Parigi, la stessa Francia non si trova in condizioni migliori.
Vediamo adesso qual è stata la seconda risposta europea al problema dell’immigrazione e cioè quella basata sulla tolleranza.
Per integrare coloro che provengono da altre culture o civiltà – si dice – occorre tollerarli e ammetterli al massimo godimento dei nostri benefici democratici.
Questa risposta è certamente migliore della precedente, perché si basa sul concetto di uguaglianza di tutti, indipendentemente dalla comunità di appartenenza di ciascuno, e sul concetto di priorità dell’individuo sulla comunità di cui fa parte.
Ma non è ancora una risposta del tutto adeguata. La tolleranza è una grande conquista europea che l’Europa ha imparato a proprie spese dopo lunghe e sanguinose lotte di religione. E, naturalmente, la tolleranza è una virtù.
Ma, così come oggi è praticata, la tolleranza è una virtù passiva, che si confonde con l’indifferenza.
Tollerare” è spesso inteso come “pazientare”, “far buon viso”, “sopportare”, e la sopportazione non porta necessariamente all’uguaglianza.
La verità è che ciò che occorre in più è il rispetto, il quale, a differenza della tolleranza, è una virtù attiva. Chi rispetta l’altro considera l’altro al suo stesso livello.
È disponibile a riconoscerlo. È disponibile ad imparare da lui, comporta la reciprocità. Se io rispetto l’altro, chiedo a lui lo stesso rispetto per me e nutro rispetto anche per me stesso. Non possiamo chiedere rispetto, e nessuno ci rispetterà, se non cominciamo a rispettare noi stessi.
Il rispetto comincia da casa nostra. Ecco perché bisogna partire dai nostri valori: se non li consideriamo il patrimonio che ci rende cittadini europei non potremo mai pensare di poter integrare gli individui di una minoranza facendoli diventare cittadini della nostra società, integrandoli con i mezzi della nostra educazione, della nostra lingua, della conoscenza della nostra storia, della condivisione dei nostri princìpi e valori.
Questa politica è il contrario della violenza e della prevaricazione, ma la creazione delle premesse sulle quali stabilire regole per convivere senza tensioni e per poterci confrontare.
E veniamo al terrorismo. I terroristi islamici hanno dichiarato una “guerra santa” – la jihad – all’America e a tutto l’Occidente. Sono deliri?
Attenzione a minimizzare. Anche Hitler, con il suo Mein Kampf, delirava, e nonostante questo l’Europa a Monaco nel 1938 cercò di dargli soddisfazione in nome della pace aprendo così la strada alla seconda guerra mondiale.
Bin Laden è certamente molto diverso da Hitler, ma non c’è ragione per ritenere che sia meno conseguente di Hitler, come dimostrano i lutti che ha provocato in tutto il mondo, di qua e di la delle sponde dell’Atlantico. Ecco perché è sbagliata la concezione di chi pensa che l’Europa debba essere un “contrappeso” o un “contropotere” dell’America. La lotta contro il terrorismo, ìl destino di paesi come l’Afghanistan, l’Iraq, devono stare a cuore anche a noi europei, non solo agli americani. E dovrebbe essere condiviso il peso che comporta una sfida così decisiva per il futuro del mondo, non solo di quello occidentale.
Insomma, bisogna farla finita con il “giustificazionismo” e con le teorie di quanti dipingono il terrorismo come un fenomeno non di aggressione ma di reazione.
In particolare, come la risposta violenta provocata da un risentimento storico delle masse islamiche contro le ingiustizie causate dall’Occidente e dal suo sistema di valori che proprio in Europa ha le sue radici. Pensare questo è profondamente sbagliato!
Ecco perché è importante, essenziale, ai fini di una cittadinanza consapevole, ribadirlo.
E’ una questione che riguarda la nostra identità e riguarda la nostra volontà di difenderla, con tutti i mezzi pacifici, finché la pace è possibile, con la forza, quando è necessaria, ma prima di tutto con la coscienza che quella europea è una grande civiltà e che il suo progresso – malgrado i tanti errori e le numerose mancanze – è fondato su basi intellettuali, culturali, politiche e morali, e non su massacri, violenze, aggressioni o soprusi, come affermano coloro che cadono nel tranello propagandistico dei fondamentalisti islamici.
Con alcune conseguenze abbastanza gravi, determinate dal relativismo strisciante che è diventato la cifra di quanti continuano a fare i pesci in barile.
Si può dire, oggi, in Europa, poniamo, che la democrazia liberale è “migliore” della teocrazia islamica, che l’autonomia della società civile è “migliore” della sharia, che la sentenza di un tribunale indipendente è “migliore” di una fatwa?
Non si può dire, non è educato, no ha fondamento concettuale, né validità interculturale. Così, anche tutti i riferimenti riportati nelle nostre costituzioni e nelle Carte internazionali ai diritti universali di libertà, uguaglianza, democrazia, eccetera, vengono espressi con grande timidezza, quasi con impaccio.
Profferirle pubblicamente è considerato etnocentrismo culturale e imperialismo politico.
Ecco perchè non ci si può meravigliare se non sta nascendo una consapevole
cittadinanza europea.
C’entra il mancato riferimento alle radici cristiane dell’Europa nel Trattato costituzionale? La separazione tra Stato e Chiesa, la concezione laica della politica, è una conquista irrinunciabile.
Tuttavia qualche riflessione si impone. Se i valori religiosi fossero confinati soltanto nella sfera privata, in quella che il cardinale Ratzinger aveva chiamato il ‘ghetto della soggettività’, sarebbe una perdita anche per la politica.
Come potrebbe agire un legislatore democratico, ad esempio su questioni delicate come quelle di bioetica, se non introducendo nella sua “sfera pubblica” quelle convinzioni, opinoni, credenze, anche religiose, coltivate dalla maggior parte dei cittadini nella loro “sfera privata”?
Insomma, come potrebbe prendere misure condivise se non riferendosi al sistema di valori e di principi ai quali fa riferimento il suo popolo?
È qui che entra in gioco il cristianesimo.
Noi, sia credenti che non, apparteniamo alla tradizione giudaico-cristiana.
Quando vogliamo conoscere la nostra identità, capire perché noi siamo noi, dobbiamo tornare sempre fare riferimento a questa tradizione. Etica e diritto nell’educazione alla cittadinanza europea devono partire da qui.