La libertà va difesa: le parole di Bortolo Belotti nel 1921
«Quella ricostruzione che fu il motivo dominante di tutti i discorsi da quando la guerra si chiuse deve avere un presupposto indissolubile nell’ assoluto rispetto delle libertà politiche conquistate dal popolo e attraverso le quali il popolo che erra può anche essere il popolo che redime».È stato da poco meritevolmente ridato alle stampe il discorso parlamentare che il deputato zognese Bortolo Belotti pronunciò alla Camera dei deputati il 22 giugno 1921: «Ritornare in noi stessi. Per la ricostruzione politica, economica e morale dell’ Italia» (Edizioni Il papavero, pp. 100, euro 14), con utile prefazione del deputato bergamasco di Forza Italia Gregorio Fontana, dal 2013 Questore della Camera. Mentre si sfrenavano estremismi destri e sinistri, dopo gli eccessi del biennio rosso e le violenze dello squadrismo, la parola del liberale bergamasco, fermissima e energica quanto a imprescindibile difesa delle libertà politiche, è peraltro fitta di appelli alla moderazione, alla «misura», a una «coscienza più tranquilla e chiara del vero fine» dell’ attività politica: frasario, si vede, agli antipodi delle opposte, roboanti retoriche rosse e nere, agli appelli alla violenza e all’ azione spregiudicata che agitavano, da più parti, il Paese. Un periodo difficilissimo, che porterà, come noto, alla marcia su Roma dell’ anno seguente. Ed è evidente che Belotti ha chiaro sentore dei rischi che la democrazia liberale va correndo, stretta fra occupazione delle fabbriche, richiami a importare il funesto modello sovietico, e distruzione di Case del Popolo e Camere del Lavoro. Mentre l’ Italia si infiamma e cadono i morti nelle piazze, Belotti parla del «nostro vivace ma sereno contributo» alla ricostruzione della Patria, dopo l’ immane tragedia della Guerra. Lessico impensabile sulle labbra del Duce che, di lì a poco, avrebbe preso il potere. E che, nell’ ottobre del ’30, manda Belotti al confino: «Fu lo stesso Mussolini -ricorda Fontana nell’ Introduzione-a volere la sua condanna e a stabilire la pena. Ironizzando sulla sua attività storiografica, disse: «Noi la storia la facciamo, non la scriviamo. Ho disposto perché quel signore abbia a veleggiare per il Tirreno, dove avrà tempo di riflettere sui suoi sentimenti”». Belotti non abiurò nulla. Morì, da liberale, in esilio a Sonvico, in Svizzera, il 24 luglio del ’44. I suoi inviti a frenare i «grandi egoismi» eccitati dalla Guerra, a lavorare per il bene comune, a risanare le finanze dello Stato suonano attualissimi.
Eco di Bergamo, 21 novembre 2020