Articolo da “Riflessi” n. 2 del 2003: “Prospettive della difesa europea nel dopo Iraq”
La crisi irachena ha messo davanti agli occhi di tutti l’inadeguatezza dell’Unione europea sul palcoscenico internazionale. Priva di coesione politica e di potenziale militare, l’Europa non è stata in grado di ottenere neanche quei pochi obiettivi su cui era riuscita a trovare un’unità: la guerra è scoppiata senza l’appoggio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il Vecchio continente, se si esclude la Gran Bretagna, è rimasto sostanzialmente escluso dalle decisioni sul dopoguerra.
La disgregazione dell’Europa è ancora più grave se si considera la contemporanea crisi delle organizzazioni internazionali. Dopo l’11 settembre di due anni fa, infatti, è risultato chiaro a tutti che la guerra moderna non risponde più ai canoni tradizionali e perciò, se si vuole evitare un ritorno all’anarchia mondiale, tutte le principali istituzioni internazionali vanno profondamente rinnovate.
Le Nazioni Unite, peraltro, sin dalla loro istituzione nel 1945, non sono mai state in grado di imporre la pace. In 58 anni, solo in tre casi il Consiglio di sicurezza ha approvato un intervento armato per imporre la fine di un conflitto: in Corea nel 1950 (ma solo grazie alla suicida tattica dei sovietici, che boicottando le riunioni del Consiglio non posero il veto); in Congo, nel 1961, con risultati quantomeno controversi; e nella prima Guerra del Golfo del 1991, circoscrivendo però la missione alla liberazione del Kuwait.
I limiti dell’Onu come risolutore delle controversie internazionali, dunque, non si scoprono certo adesso. Tuttavia, la crisi irachena li ha messi davanti agli occhi di tutti e soprattutto ha fatto capire definitivamente agli americani che la sicurezza mondiale, nell’era della guerra chimica, biologica e nucleare, non può essere soggetta al gioco di veti incrociati che ne paralizzano l’azione. Gli Stati Uniti sono consapevoli di essere l’unico Paese al mondo in grado di intervenire prontamente ovunque in caso di gravi crisi. E sanno che anche la Francia e la Germania, cioè i principali oppositori del conflitto iracheno, dovrebbero ricorrere a loro in caso di emergenza nazionale. È normale, quindi, come ha fatto notare recentemente Henry Kissinger, che da parte dell’America esista un certo senso di delusione per il comportamento di coloro che si professano suoi alleati.
Dopo la paralisi che ha preceduto la guerra, sono state lanciate da più parti varie proposte di riforma del Consiglio di sicurezza. Tuttavia è ovvio che prima che si possa procedere a un effettivo rinnovamento dei meccanismi decisionali ci vorranno diversi anni e l’Europa non può certo aspettare l’evolversi di questo processo per tornare protagonista.
Se non altro, l’incapacità dell’Unione europea di giocare un ruolo all’altezza della propria cultura e del proprio status economico ha portato per la prima volta una serie di questioni nelle piazze delle città. Mai prima d’ora i cittadini e i popoli d’Europa avevano chiesto con tanta forza che l’intero continente parlasse con una voce sola. E dato che da poco più di un anno una Convenzione per le riforme sta discutendo il futuro dell’Unione, il momento non poteva essere più favorevole.
Per parlare con una voce sola in politica estera, però, l’Europa ha bisogno di chiarire alcuni equivoci che fino alla crisi irachena erano rimasti sopiti. In particolare quello riguardante la difesa comune: con quali prospettive l’Unione europea intende darsi un esercito autonomo? Qualcuno, in primis la Francia, ha sempre pensato a un progressivo distacco dell’Europa dalla Nato, fino a una totale indipendenza militare dagli americani. Altri, come l’Italia e la Gran Bretagna, hanno invece sempre concepito l’esercito europeo come un pilastro essenziale dell’Alleanza atlantica. Questo equivoco fu dribblato nel 1998 con gli accordi di Saint Malo tra Francia e Inghilterra, che consentirono l’inizio di quel duplice processo (iniziative all’interno della Nato e sviluppo di una difesa autonoma) che ha portato una forza Ue a sostituire la Nato in Macedonia a febbraio di quest’anno; primo esempio di soldati con i vessilli europei nella storia.
Con la crisi irachena, però, la decisione di Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo di dare vita a una “cooperazione rafforzata” sulla difesa (vietata dal trattato di Nizza) e di riunirsi a quattro nel minivertice del 29 aprile, ha rotto lo spirito di Saint Malo, riportando alla luce le divisioni strategiche tra i paesi europei.
Di conseguenza, in vista del semestre di presidenza dell’Ue, la ripresa di buone relazioni euro-americane è stata subito considerata una priorità del governo italiano. Un primo risultato di rilievo è stato ottenuto con la decisione che le discussioni sulla difesa comune tornassero nella sede appropriata, e cioè il Consiglio europeo. È d’altronde chiaro a tutti che una difesa europea senza l’ausilio dell’Inghilterra, che è la più grande potenza militare dell’Unione, è priva di ogni prospettiva. La rapida conclusione della guerra in Iraq ha poi contribuito ad indurre Francia e Germania ad un ripensamento.
In questa fase di transizione, quindi, il semestre di presidenza italiana dell’Unione rappresenta una sfida eccezionale per la nostra diplomazia, che già da alcuni mesi è impegnata in uno sforzo di mediazione per ridurre le distanze tra i Venticinque sia sulle questioni istituzionali che su quelle riguardanti la politica estera. Sul piano politico, l’Europa deve smettere di essere, come l’ha definita in una recente intervista il politologo Massimo Teodori, “una camera di compensazione di interessi contrapposti” e darsi delle istituzioni che consentano una guida più unitaria. Per quanto riguarda la difesa, va invece risolto l’equivoco di partenza nell’unico sbocco possibile: il proseguimento, sia pure con modalità rinnovate, della partnership con gli Stati Uniti.
Alle velleità di grandeur neogolliste di Jacques Chirac, avallate dal governo di Gerhard Schroeder in Germania, si è opposta un’Europa ormai troppo più ampia per essere soggetta ai diktat dell’asse franco-tedesco. Dalla Spagna alla Gran Bretagna, dall’Italia, all’Olanda, fino ai paesi dell’est ormai parte integrante dell’Unione, c’è un’Europa che è ben consapevole dei pericoli di un distacco dall’alleato d’oltre Atlantico. Il terrorismo, la povertà e l’oppressione dei popoli sono i nemici del XXI secolo e solo una piena partnership tra le due sponde dell’Oceano potrà combatterli in maniera efficace. Inoltre, solo nell’ambito di una partnership leale e convinta l’Europa potrà convincere l’alleato a cambiare posizione su quei temi a proposito dei quali sono ancora forti le divergenze: l’ambiente, le barriere commerciali, la pena di morte.
Con il semestre di presidenza italiana, dunque, per il nostro Paese si presenta la grande occasione di dirigere il corso delle riforme dell’Europa, inclusa quella della difesa. E Silvio Berlusconi ha subito fatto capire che il suo governo giocherà un ruolo attivo, evitando posizioni dogmatiche per non acuire le distanze ma cercando di imporre un ritmo serrato ai lavori per arrivare a un risultato effettivo.
Il premier non ha mai fatto mistero delle sue idee in proposito: l’Europa deve dotarsi di un esercito autonomo e deve spendere molto di più per la difesa, evitando però costose e inutili duplicazioni delle strutture della Nato, che anzi costituiscono un fondamentale ausilio, anche in termini di esperienza, per le nascenti forze armate europee. Anche l’Alleanza atlantica va rinnovata, dato il venire meno dei suoi presupposti strategici e geografici iniziali, per diventare il pilastro della sicurezza globale. Un processo peraltro già cominciato con il vertice di Praga dello scorso novembre.
Nell’ambito di questa alleanza, l’Europa dovrà diventare un soggetto politico forte e autorevole, con una sicura guida politica e con un potente apparato militare, in modo di farsi carico, assieme all’alleato americano, della sicurezza, dello sviluppo della democrazia e della libertà nel mondo.